Alfabeto

L’alfabeto barese si compone di ventidue lettere e, come nell’alfabeto italiano, ciascuna lettera ha un suo nome, secondo il suono che essa rappresenta.

  1. a (a)          2.  b (be)            3.  c (ce)          4.  d (de)             5.  e (e)       6. f (fe)
  1. g (ge)         8.  h  (àcche)      9.  i (i)            10.  k (cappe)     11.  l (le)    12. m (me)
  1. n (ne)    14. o (o)              15.  p (pe)       16. q (qu)           17.  r (re)   18.  s (se)
  1. t (te) 20.  u (u)              21. v (ve)        22. z (zète)

La vocale (e) è divisa in due suoni e che fa parte dei diversi fenomeni della parlata barese e della maggior parte dei dialetti meridionali.
Nel nostro idioma la ‘e’ si distingue in è (accentata): si scrive e si pronuncia e, in ‘e (semimuta): si scrive, ma non si pronuncia, è simile come la e muta francese. Certuni hanno adoperato, per distinguere la ‘e’ atona, la (ə) capovolta detta ‘shwa’, termine di grammatica ebraica col quale si indica una vocale di timbro indistinto (vocale neutra), di quantità ridotta, di scarsa sonorità e scarsa tensione articolatoria.
E la ‘e’ con la dieresi (ë), graficamente rappresentata dai glottologi e che fa parte esclusivamente dell’alfabeto scientifico, quindi, sono concretamente escluse, l’una e l’altra, nell’alfabeto standard ossia dialettale perché: o si adopera solo ed esclusivamente l’alfabeto fonetico con la grafia scientifica o si scrive in dialetto adoperando solamente la grafia comune vale a dire usufruendo dell’alfabeto italiano, consci di un compromesso, ma non si può fare altrimenti se si vuole diffondere l’uso della lingua barese a un pubblico più vasto possibile.

La lettera h solo per le voci verbali del verbo avere “avè”, tu devi andare: “ha da scì”, loro verranno: “lore honne a menì”, ecc.

Il k ha suono del ‘c’ duro e viene sempre e solo preceduto dal nesso consonantico sc che ha suono dello ‘sc’ di scena: es. di varie pronunce: “scène”, “sckène”; “Pascàle, Pasquàle, Pasckuàle” (vedi consonante ‘k’).

Le lettere – j – x – y – w non vanno usate se non nei casi adeguati al loro impiego.

 

Vocali fenomeni della u

L’ “u” davanti a parole che iniziano con (b), le raddoppia quasi tutte, quando l’accento cade su una delle vocali della prima sillaba: u bbagne (il bagno), u bballe (il ballo), u bbrote (il brodo).

Davanti a parole comincianti con (c), di solito l’ “u” non raddoppia le consonanti iniziali della parola che precede, salvo qualche rara eccezione come: u ccose (il cucire), u ccalde (il caldo), u ccuètte (il vincotto), ecc. Generalmente fa: u calge (il calcio) u cane (il cane), u cèmece (la cimice), u cadde (il callo), u cuèche (il cuoco), ecc.
U” davanti a parole che iniziano con (d) non la raddoppia: u dade (il dado), u dènde (il dente), u danne (il danno), u dazzie (il dazio). Però fa u ddinde (l’insieme degli ingredienti che s’inseriscono nel pollo, vale a dire, tutto quello che di pregiato vi è nell’interno di qualcosa, specie da mangiare).

L’ “u” davanti a parole incomincianti con (f) non raddoppia questa consonante eccetto casi rari come: u ffuèche (il fuoco), u ffriscke (il fresco) per distinguerlo da u friscke (il fischio), u ffà (il fare). Per il resto, la (f) rimane scempia: u figghie (il figlio), u fare (il faro), u fame (il falò), ecc.

L’“u”, incontrando parole che iniziano con (g) seguìta da vocale accentata della prima sillaba, prevalentemente la raddoppia: u ggasse (il gas), u ggote (il godere), u ggiglie (il giglio), u ggire (il giro), generalmente fa: u gobbe (il gobbo), u grate (il grado), u gange (il gancio), u gufe (il gufo).

L’ “u” con parole che iniziano con (l), non raddoppia la consonante salvo casi come: u llatte (il latte), u llarde (il lardo), ecc., mentre fa generalmente: u lupe (il lupo), u lazze (il laccio, il lazo), u lìitte (il letto); u lèche (fondo rustico); ecc.

L’incontro “u” > (m): se si eccettua u mmìire (il vino), u mmèle (il miele), u mmègghie (il meglio, «sostantivo»), u mmìnie (il minio, ossido di piombo di color rosso scarlatto), u mmì (il mio «sostantivo»). Per il resto mantiene la consonante scempia: u mare (il mare), u masce (il maggio), u mèste (il mastro), u mazze (il mazzo), ecc.

Per l’incontro “u” > (n), vale quanto detto prima. Pochissime le eccezioni: u nnéve (il nuovo), in prevalenza, mantiene la consonante scempia.

Lo stesso fenomeno lo notiamo, per l’incontro “u” > (p), eccettuati u ppane (il pane), u ppèpe (il pepe), u ppicche (il poco), in prevalenza mantiene la consonante scempia.

Altrettanto per “u” > (q), eccetto u qqu (cu), non si hanno altri raddoppiamenti.

Per l’incontro “u” > (r), abbiamo rafforzamenti in u rrè (il re), «u ré, con l’accento acuto, è la nota musicale»; u rrite (il ridere), «u rite, è il rito», u rrusse (il rosso – colore –), «u russe è il rosso malpelo o cosa di tale colore», u rrutte (il rotto «sostantivo»), «rutte si usa solo come aggettivo», per il resto conserva la consonante scempia.

La (s) seguìta da vocale accentata della prima sillaba, preceduta dalla “u”, non raddoppia: u salme (il salmo), u sckife (lo schifo); u sande (il santo), u surde (il sordo), ecc.
Non pochi però sono i casi in cui si ha raddoppio iniziale: u ssale (il sale), u ssalze (il salso), u sscème (lo scemo), u ssanghe (il sangue), ecc.

Nell’incontro di “u” > (t), tolti u tticche (il tic), u ttarde (il tardi «sostantivo»), u ttunne (il tonno), u ttù (il tuo «sostantivo»), si ha la (t) scempia anche quando ha funzione di aggettivo possessivo: cusse cane iè u tù? (questo cane è il tuo?).

L’incontro “u” > (v), eccetto u vvèrde (il verde «sostantivo»); (vèrde è sempre in funzione di aggettivo) e u vvì (la lettera “v”), il resto mantiene scempia la consonante iniziale della parola: u vì (lo vedi), u vìinde (il vento).

La “u” rafforza la (z) iniziale di parola: u zzère (lo zero); u zzinghe (lo zinco), eccetto u zèppe (lo zoppo), u zippe (il bastoncino), u zingre (lo zingaro), u zambe (il furto).

Verbo Ausiliare Èsse (Essere)

INDICATIVO
Presente
Io sono – Iì sò  (“iì songhe”; “sonde”; arc.)
Tu sei – Tu sì  (“tu sìinde”; “sìnghe”: arc.)
Egli è – Iìdd’è (o iìdde iè) (vedi ‘i’ epentetica)
Noi siamo – Nù sìme
Voi siete – Vu sìte
Essi sono – Lore sò  (“sonde”: arc.) Continua a leggere Verbo Ausiliare Èsse (Essere)

Aggettivi Indefiniti, interrogativi, numerali

Aggettivi indefiniti

4-01-2015

Si dicono indefiniti, gli aggettivi che indicano persone, animali e cose in senso indeterminato e incerto, e sono generici, al contrario dei determinativi che sono specifici.
Invariabile nel genere e nel numero è “assà” (molto, assai); “assà rrobbe” (molta roba); “assà llatte” (molto latte); “assà seldate” (molti soldati).

Gli aggettivi “cèrte” (certo); “picche” (poco); “troppe” (troppo); “tutte” (tutto / tutta (con l’altro femminile “totte”: “totta farina bbiànghe”), davanti a nomi femminili al singolare e davanti a nomi collettivi di genere femminile, prendono una ‘a’: “cèrta ggènde” (certa gente); “cèrte moneche” (certe monache); “nu cèrte uaggnòne” (un certo ragazzo); “troppa grazzie” (troppa grazia); “tutta (ototta”) ggènda sscème” (tutta gente scema); “picca nève” (poca neve).

Anche gli aggettivi “tande” (tanto) e “quande” (quanto), prendono una ‘a’ davanti a nomi femminili singolari, mentre terminano in ‘a’ o ‘e’ davanti a nomi femminili e maschili plurali: “tanda / quanda farine” (tanta / quanta farina); “tanda (e “tandefèmmene”; “quanda (e “quande) fèmmene” (tante / quante donne); “tanda (e “tande) pissce” (tanti pesci); “quanda (e “quande) pissce” (quanti pesci); “quande mmìire” (quanto vino).

Quande”, ha svariati significati, secondo l’uso: “famme mangià quande me lèveche la fame” (fammi mangiare acciocché io possa togliermi la fame); “quande m’assigghe nu picche eppò me iàlzeche” (tanto quanto mi siedo eppoi mi rialzo).

Se “tande” si raddoppia, termina in ‘a’ il primo, meno frequente in ‘e’: “tanda tande” o “tande tande”; “iè vvère ca chemmanne iìdde, ma tanda tande pò no” (è vero che comanda lui, ma poi andar oltre il consentito, no); “tande ce ttande” equivale a ‘se è così’, ‘se le cose devono rimanere in tale stato’, ‘al posto di tanto’, ‘tanto per tanto’, ecc.
Viste c’agghie a merì, tande ce ttande, vogghie mangià e bbève sènza mesure” (poiché dovrò morire, tanto vale che non faccia più sacrifici nel mangiare); meglio con tipica espressione: “viste ca… vogghie merì mangiàte”: …tanto vale che muoia… (dopo aver) mangiato (cioè: satollo).

Tande” e “quande”, possono accoppiarsi con “mène”, per fare “tandomène” e “quandomène” (recenti acquisizioni dall’italiano); raro: “quande mène”; abbiamo anche, “tandoquande” e mai “tande quande”.

Picca picche” (sost.) e “picche picche” (pochissimo); “vogghie nu picca picche”  (voglio un poco); “de pane m’ha ddate picche picche” (di pane m’ha dato pochissimo).

Altri aggettivi indefiniti i quali, nelle norme, son quasi identici a quelli italiani: “tale”, “quale”, “oggne”, invariabili al singolare e plurale maschile e, al femminile plurale. Preposti al nome singolare femminile terminano in ‘a’, mentre “oggne” prende sempre la congiunzione ‘e’ dopo di sé, quando precede nome femminile e maschile al singolare: “oggn’e ffèmmene” (ogni donna); “oggn’e iùne” (ognuno); “oggn’e seldate” (ogni soldato); “tala fèmmene”; “quala fèmmene”.

Aldr’e ttande” si fonde in “aldrettànde” e la ‘e’ si pronuncia perché la sua origine è congiunzione.

Aggettivi interrogativi

Gli aggettivi che servono a ricercare la determinazione della qualità e della identità di una cosa, di un animale o di una persona, sono: “ce” e “ccè” (che); “quale” (quale); “quande” (quanto). Restano, generalmente, invariati al maschile e al femminile, singolare e plurale.
Però “quale” e “quande” davanti a nomi femminili singolari terminano in ‘a’: “quala cose me uè dà?” (quale cosa mi vuoi dare?); “quanda nève ha cadute?” (quanta neve è caduta?).

Nel caso di plurale femminile e in quelli analogici, “quande” ha due forme: “quanda / quande fèmmene sò arrevate?”. Questi possono avere funzione esclamativa: “quanda / quande chiàcchiere”, “ce bellèzze de fèmmene”.

Ce” è sempre invariato. A chi parla in italiano, qualche volta sfuggirà di dire ‘che bello, che caro’. In dialetto non è possibile, si dirà sempre “ce bbèlla (o “bbèdda) gaddine”.
In queste espressioni il “ce” ha valore di “quande”, “come”; “ce iè bbèlle” (quanto è bello, come è bello); “ce iè ffòrte” (quanto / come è forte); “ce bbèlle cavadde”.
Qui il barese si prende una rivincita perché esso non dirà mai ‘che bella’, ma “ce bbèlla cose”.

Aggettivi numerali

Definiscono persone e cose in modo esatto e determinato e possono essere ordinali e cardinali:
Ordinali: “prime”, “seconde”, “tèrze”, “quarte”, “quinde”, “sèste”, “sètteme”, “ottave”, “none”, “dègeme”, “iùnnecèseme”, “dudecèseme”, ecc.

Vanno considerati, fra questi, anche “mìinze” (mezzo), “uldeme” (ultimo); “mìinze lidre” (mezzo litro); “mènza ssciàbbue” (mezza sciabola – soprannome –), corrisponde al sostantivo metà.
L’aggettivo “uldeme” richiede il più delle volte il raddoppiamento dell’articolo determinativo di forma diversa, “iè u l’uldeme de tutte” (è (il) l’ultimo di tutti); è evidente che il popolano in dialetto usa ‘il’ e ‘lo’ contemporaneamente davanti a “uldeme”: “” (il) “u” (lo, l’) “l’uldeme”. Si registra anche una forma antica “ludeme”: per ultimo.

Cardinali: 1: “iùne” (masch.), “iùna” (femm., se seguìto dal nome); 2: “” (masch.), “” (femm.); 3: “trè”; 4: “quatte”; “”, “” e “quatte”, spesso indicano anche una quantità indeterminata: “agghie pertàte dù lepine, dò amìnue e dù fiche” (ho portato un po’ di lupini, un po’ di mandorle e un po’ di fichi); “dù-dù”, ha valore di ‘pochissimo’: “eh! ca dù-dù me sò mangiàte”; “Coline tène quatte strazze” (Nicolino ha quattro stracci); 5: “cinghe”; 6: “”; 7: “sètte”; 8: “uètte” (anche “iòtte); 9: “nove”; 10: “dèsce”; 11: “iùnnece”; 12: “dùdece”; 13: “tridece” (o “triddece); 14: “quattorce(“quattòdece”: recente); 15: “quinnece”; 16: “sidece”; 17: “degessètte”; 18: “degeiòtte” (o “degedòtte”, arc.); 19: “degennòve”; 20: “vinde”; 21: “vindune”; 22: “vindidù” (masch.), “vindidò” (femm.); 30: “trènde”; 40: “quarande”;  50: “cinguànde”; 60: “sessande”; (“quande sò?” – “sessande” – “sì! Se…ssande, va m-baravìse); 70: “settande”; 80: “uèttànde” (anche “ottande); 90: “novande”; 100: “cìinde”; 1000: “mille”; 2000: “dumile”; 3000: “tremile”; ecc. ecc.

Avremo: “vindùne fèmmene”, “cìind’e iùne” (centouno); “ducìind’e iùne”, “mill’e iùne”, fanno contemporaneamente “cìind’e iùne megghìire” e “cìind’e iùna megghière” (prov. dotta).

” ha sempre il femminile, e quindi fa “vindidò fèmmene”, “novandadò fèmmene”, “cìind’e ddò fèmmene”, ecc.

Da “trènde” fino a “novande”, prendono una ‘a’ finale: “trènda lìre”, “sessanda monète”, “novanda cavadde”, ecc.

Decine”, “vendine”, “trendine”; “cendenàre”, “megghiàre”, hanno significato preciso e approssimativo: “damme na trendine de nusce” (dammi una trentina (circa) di noci), oppure con un costrutto tipico, “quanne a na trendine de lire de mmìire” (quanto a una trentina di lire di vino); così “cìinde”, “mille”, significano, invece, grandi quantità, “vole pagghie pe ccìinde cavadde”.

– Non è difficile sentire dai vecchi della antica città: “tènghe quatte vendine” (ho ottant’anni); nell’uso comune può dirsi scomparso. Così pure per dire 1300 si diceva “tridece cìinde” (tredici cento); infatti, padre Giandomenico, parroco della Chiesa di Sant’Antonio, era soprannominato “padre trìdece cìinde”, perché riuscendo a mettere insieme 1300 lire diceva di aver raccolto “tridece cìinde” (vedi: Davide Lopez). Era frequente, fino a poco tempo fa, l’uso fra il popolino, di contare le ore in numero di 24 da un tramonto all’altro; “vindun’ore” (tre ore prima del tramonto) e “n’ore de notte” (un’ora dopo il tramonto). Quest’uso è rimasto, in qualche vecchio popolano superstite, ma decisamente è quasi estinto. Oggi si sente dire frequentemente “u ha ffatte a iòre de notte” (lo ha fatto…nero nero, come può essere un’ora dopo il tramonto); ma con l’illuminazione delle strade e delle case, l’allusione si stempera.
Altro esempio: “cudde tène la cape a trideciòre” (quel tale ha la testa stonata, come a prima mattina, ci si alza imbambolati). “A vindiquàtt’ore” o all’ “avemmarì”, corrispondeva al tramonto del sole; “a ventiquattrore” è in un’ordinanza di Polizia dell’Intendente Dumas, n. 64 del 17.1.1812, pubblicata nel ‘Giornale dell’Intendenza per la Terra di Bari’ nella quale si impartivano disposizioni per il Carnevale: Baccanali.

Mille” (1000), se preceduto da un numero perde una ‘l’, “Dumile” (2000); “tremile” (3000).
Eccetto 1000, le altre migliaia seguite da nomi femminili prendono la desinenza in ‘a’, anche se il nome è plurale, “mille lire”, “dù mila lire”, “dù mila pègre”, “tremila fèmmene”. Se fra il numero che precede “mila” e questo termine vi è un’altra parte del discorso, l’accordo non si fa più “trè de mille fèmmene”.
Meggliùne” e “meggliàrde” vanno staccati dai numeri: “dù meggliùne”, “dù meggliàrde”.

Come detto, in barese, quando “iùne” non è un tutto organico con un numero maggiore, si accorda e non si accorda, con il femminile, prendendo la desinenza in ‘a’ e, altre volte, la desinenza in ‘e’, quale plurale -.

Aggettivi con prefissi, indicativi e possessivi

Aggettivi con prefissi

Il prefisso modifica il senso dell’aggettivo cui si lega. I più usati sono: s-; ande-; stra-.
Il prefisso s- (lat.: ‘ex’), contrariamente all’italiano, ha valore prevalentemente negativo; stra-, si usa nelle imprecazioni e nelle espressioni rabbiose e poco 23-01-2015pulite: “scomete” (scomodo); “sgrate” (ingrato); “sfatte” (disfatto); “andeveggìglie” (si scrive anche “andevescìgghie) (antivigilia); “strapizze” (di forma irregolare, fuori squadra) – “pizze” (capo regolare); “strafine” (estra fino); “stramane” (oltre l’ubicazione normale); “strapuèrche” (ultra-porco).
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Aggettivo qualificativo e i suoi gradi

Aggettivo qualificativo e i suoi gradi – Forme alterate di aggettivi.

Grado Superlativo: può essere assoluto e relativo

Assoluto: indica il valore massimo di una qualità indipendentemente dal confronto di altre qualità e di altri termini. La sua formazione si ottiene aggiungendo al tema dell’aggettivo, la terminazione –sseme, al grado positivo oppure raddoppiando il positivo, ed anche aggiungendo al positivo un altro aggettivo che lo renda simile al valore del superlativo assoluto, creando così, una forma composta: “sande: sandìsseme”, “madònna sandìsseme”; “russe: russe russe”, “s’ha ffatte russe russe m-bbacce”; “assà bbrutte” (assai brutto). Continua a leggere Aggettivo qualificativo e i suoi gradi