A mangià vène u guste, a pagà vène la suste

Un aspetto interessante del barese è quello di usare con molta frequenza il senso figurato per definire un determinato oggetto o soggetto al posto del nome stabilito per il suo uso nel linguaggio ordinario. Ad esempio, il «sordo» viene indicato come un tale che “iàvete suse”, cioè persona con dimora ai piani superiori del pianterreno e quindi… non in grado di sentire parole distinte provenienti dalla strada.Nel dialetto c’è l’eloquente “surde nghiemmàte” (sordo piombato) che esprime appieno il concetto, ma particolari situazioni stimolano il conservatore di una certa pasta nell’usare una fraseologia stramba affidata alla fantasia senza briglie.

Ci tène la cavallerì” ha i pidocchi che possono essere chiamati (al posto del nome ordinario “pedùcchie) “pellegrìne”, una denominazione che avrà tenuto conto dei pellegrini che venivano a piedi (“che la petovì”) dai loro paesi lontani per devozione a San Nicola, un tempo afflitti da tali parassiti che i bambini baresi chiamavano “le cicì” e quella donna che s’incaricava di toglierli dalla testa veniva chiamata “spilacicì”.

Se la «caccia» va per le lunghe è bene fermarsi verso mezzodì “quanne Catarìne abbatte” o meglio dire “batte u fiànghe dèstre”. E non attendere oltre un certo tempo perché una fame non soddisfatta porta a debolezza e quindi ciascuno non è capace di “carrescià manghe l’acque a le muèrte”. E questa si sa non pesava oltre cento grammi compreso il contenitore di vetro. Ora, per la persona alta di statura si diceva “asscinne da cavadde” (scendi da cavallo).

Se fosse stato molto basso e avesse avuto piacere di crescere in altezza si suggeriva il rimedio di mettere “u levate sott’a le pìite” (mettere il lievito per il pane sotto i piedi per svilupparsi in altezza).

Poniamo il caso che il soggetto sia una donna incinta con tanto di pancione. In queste circostanze veniva detto: “chèdde av’avute na stambate n-guèrpe” (quella donna ha ricevuto un calcione alla pancia). E se la stessa non possedeva due mammelle vistose, la si apostrofava con “a cchèdde San Gesèppe ngi-av’ammenate u chianèzze(a quella donna San Giuseppe e ha passato la pialla sul petto). Ma se poi la donna o uomo sono “stritte de pìitte” vuol dire che essi sono avari, cioè che tengono ben stretti i cordoni della borsa. Coloro che “stonne tèste” (stanno duri) o “fascene calde” (fanno cado) sono ricchi.

Quando, ricco e no, stringono fra le man del denaro, “fascene lusce” (fanno luce). Il poveretto, invece, è definito in tanti modi: “Come me vìte me scrive” (Come mi vedi mi scrivi) oppure “Non dène manghe addò cadè muèrte” (Non ha nemmeno dove cadere se dovesse morire), “nge manghene sèmbe degennòve solde p’acchecchià na lire” (gli mancano sempre diciannove soldi per possedere una lira).

Se un uomo dovesse orinare, tale atto è detto “cangià l’acque a ll’auuì” (cambiare l’acqua alle olive. Cioè gettare la vecchia acqua coloratasi, sostituendola con quella fresca). E così chi tende un tranello ad una persona “nge fasce la casscetèdde” (fa una cassettina), se il tranello è abbastanza consistente “u malacàrne” (cattivo soggetto) “nge fasce nu bbèlle medìille” (gli fa un bel modello), se il malfatto è di maggiore ampiezza, allora, a chi ha subito l’atto deprecabile “ngi-hanne fatte nu bbèlle traiìne” (gli hanno fatto un bel traino). Se questa azione avesse fatto cadere il malcapitato sotto le mani dei poliziotti borbonici di un tempo, e avesse ricevuto botte per confessare, si diceva che quel tale aveva ricevuto “nu sand’Andònie” (un sant’Antonio, con riferimento all’invocazione che l’interrogato faceva ad ogni colpo ricevuto chiedendo aiuto al santo di Padova). Santi di alta natura e di diverso significato sono “sande Cannite” (san Canneto), come santo della «canna» che consente il passaggio di alimenti, inteso in senso malizioso. Un tangentista “iè nu devote de sande Cannite”, ma nello stesso tempo un goloso. A colui il quale si appioppa la definizione “sanda Lissce”, anche se ha il significato di persona con mento molto prominente, in barese è detto “iòmmene che la pèchiòcche”. Nel caso quest’uomo abbia gli occhiali o le lenti ecco che viene detto che “tène l’ottandòtte”.

Del cattivo pagatore si diceva: “a pagà chiòve la case” (quando deve pagare porta a pretesto che nell’abitazione piove e quindi «pagherò dopo effettuate le riparazioni»).

Del numero 17 si diceva 16 + 1 per nominare il 17 che portava male. Per chi comprava alimenti “a rrascke” (a «coppone») cioè contraendo un debito e non si sdebitava correttamente venivano dedicati i seguenti versetti: “A mangià vène u guste, a pagà vène la suste” (il malpagatore quando mangia è contento, quando deve sdebitarsi s’innervosisce non poco per «l’atto di dolore» che deve effettuare nel mettere mano al “parzecchìne” (porta zecchini, portamonete) o anche “a la regonètte” (all’organetto, portafogli).