Aggettivi con prefissi, indicativi e possessivi

Aggettivi con prefissi

Il prefisso modifica il senso dell’aggettivo cui si lega. I più usati sono: s-; ande-; stra-.
Il prefisso s- (lat.: ‘ex’), contrariamente all’italiano, ha valore prevalentemente negativo; stra-, si usa nelle imprecazioni e nelle espressioni rabbiose e poco 23-01-2015pulite: “scomete” (scomodo); “sgrate” (ingrato); “sfatte” (disfatto); “andeveggìglie” (si scrive anche “andevescìgghie) (antivigilia); “strapizze” (di forma irregolare, fuori squadra) – “pizze” (capo regolare); “strafine” (estra fino); “stramane” (oltre l’ubicazione normale); “strapuèrche” (ultra-porco).

Aggettivi indicativi, possessivi

Indicativi o dimostrativi sono quelli che si premettono al nome per indicare la vicinanza, la lontananza di una persona, di un animale o di una cosa, da chi parla, da chi ascolta o da tutti e due:
maschile:   stu  femminile    sta  pl. (m. e f.)      sti
      »   cusse         »   chèsse  »   »   chisse
      »   cudde        »   chèdde  »   »  chidde

Inoltre, “stèsse” (stesso, molto usato), “medèseme” (medesimo, raramente usato, ma compreso nel precedente); “alde” (altro).
Preposti al nome femminile singolare terminano in ‘a’: “stèsse uaggnòne”, “stèssa uaggnèdde”; “damme n’alda paggnotte” (dammi un’altra pagnotta); “chisse uaggnùne s’honne spartute la cammise de Criste” (questi ragazzi hanno diviso fra loro, una ben misera cosa); “chèdda uaggnèdde arremanì com’a la zite de Cègghie” (quella ragazza fu lasciata come la sposa di Ceglie – aspettare senza speranza lo sposo –); “stu pulpe” (questo polpo); “sta sècce” (questa seppia); “sti sècce” (queste seppie); “sti crestiàne m’ammenòrene la screccògghie” (queste persone mi perquisirono); “sta crestiàne, mala nettàte e ffigghia fèmmene” (questa benedetta donna mi ha fatto passare una brutta nottata  e mi ha dato (per giunta) una figlia -…femmina –).
Infine, “nge” (questa o quella cosa); ha valore anche di pronome dimostrativo, “u decì, ma iì no nge agghie credute” (lo disse, ma io non ci ho creduto). L’impiego di questi aggettivi è, per lo più, identico a quello dell’italiano.
In dialetto si può usare in determinate circostanze: “cudde” (quello) e “cusse” (questo), in modo opposto alla funzione che hanno in italiano; esempio: ci sono due polpi nel cesto di un pescatore. Ne scelgo uno. Il pescatore prende uno dei due per offrirmelo, mi accorgo che non è quello che avrei scelto, e dico: “non vogghie cusse (e indico col dito il polpo che stava per darmi) ma vogghie cudde (cioè l’altro)”.
Un padre rimprovera la figlia in presenza della madre di questa (la moglie) e dice: “a ttè e a cchèdda svergoggnàte de mammete” (e la madre è presente).
In italiano, visto che la madre è presente (come lo è la figlia) diremo: ‘a te e a questa svergognata di tua madre’ e non a ‘quella’, come si dice in italiano.
In effetti, in dialetto, c’è più libertà di scelta e la costruzione viene affidata a quel tanto di gusto popolano per ricavare il migliore effetto per l’efficacia espressiva.
Quindi, usando pleonasticamente “cusse” e “stu” (questo), “cudde” (quello), ecc. avremo un particolare effetto espressivo: “cusse sscème” (questo scemo), “ma cudde Abbrèssce ce pausì facève” (ma quell’Abbrescia che poesie componeva).
Infine l’aggettivo “ce”, prettamente dialettale, vale press’a poco il ‘quanto’ italiano in funzione esclamativa: quant’è brutto: “ce iè bbrutte”; quanto è scemo: “ce iè sscème”, ma in dialetto, si può dire benissimo “quand’è sscème”, preferita al “quande iè sscème”. Il “ce” si usa in pochi casi e, deve essere seguìto immediatamente dal verbo.
Solo se precede il verbo “esse” (essere), “ce” ha significato di ‘quanto’; “ce iè ddolge” (quanto è dolce); con tutti gli altri verbi ha significato di ‘come’: “ce fète” (come puzza); “ce addore” (come odora).
Quando ha valore di ‘quanto’ il “ce” è un aggettivo indefinito di quantità, con funzione avverbiale, mentre quando corrisponde al ‘come’ ha funzione di avverbio, in generale, e avverbio di maniera, in particolare.

Aggettivi possessivi

Gli aggettivi possessivi si usano quando si desidera indicare con precisione la persona a cui appartiene un animale, una cosa, una persona. Essi sono:

mio, miei:  mì  » mia, mie:  (anche *)
tuo, tuoi:   » tua, tue: 
suo, suoi: sù  » sua, sue: so
nostro/i: nèste  » nostra/e: noste
vostro/i uèste  » vostra/e: voste
loro:  lore  » loro:  lore
di altro/a/e/i: d’alde.

* (raro), appare negli ingentilimenti, nella poesia, nelle invocazioni devote. È di origine dotta (“Seggnora mì”, “Madonna mì”).

Seggnore mì, me manghene sèmbe degennòve solde pe ffà na lire” (signore mio, mi mancano sempre diciannove soldi per fare una lira);
sora mè, tènghe na bbrutta mezzecuatòre a la scarpe” (sorella mia, ho una scarpa che mi morde un piede);
o chem
bagne sù nge decì na parole sott’o sciàsse” (all’amico suo bisbigliò una parola convenzionale in modo molto riservato);
le marenare nèste, p’u (opu’) ffrìdde, tènene le carne pizzeche pizzeche” (i nostri marinai, per il (= pel) freddo hanno la pelle d’oca);
le u-uà tù sò mmène de chìdde mì” (i tuoi guai sono nulla in confronto ai miei);
le figghie uèste sò cchiù granne de le nèste” (i vostri figli sono più grandi dei nostri);
la mamma so” (la madre sua).
A differenza dell’italiano, il dialetto barese ha forme atone enclitiche e una proclitica, nel caso di “dattande” (“d-attàne-de”), (tuo padre tuo).
Le forme atone sono “me” (mio, mia); “matrègheme” (la matrigna mia);
te” (tuo, tua); “matrèghete” (la matrigna tua).

Gli aggettivi possessivi vanno sempre posposti al nome, il quale richiede, davanti a sé, l’articolo; fanno eccezione i vocativi: “u core tu” (il (tuo) cuore tuo); ma “core mì” (cuore mio); “le sore mè” (le (mie) sorelle mie); ma “sora mè”  (sorella mia); “le scarpe mè” (le (mie) scarpe mie), ecc.

Se l’aggettivo possessivo è preceduto da un nome femminile e seguìto da un aggettivo qualificativo, esso termina in ‘a’: “mamma mèa bbèlle” (mamma mia bella).
Fa eccezione “mio seggnore” e “lor seggnore”, la prima, predilige l’articolo e l’altro no: “dingìuue a quèl mio seggnore c’av’a ffà le cunde che mmè” (diglielo a quel mio signore che ha da  (a) fare i conti con me) “dingiùue a llor seggnore…”.
Rifiutano l’articolo, invece, i sostantivi regolari indicanti relazione di parentela, qualora essi possano, secondo l’uso, incorporare encliticamente le forme atone degli aggettivi possessivi di 1ª e 2ª persona singolare.
Esempi di nomi con forme atone di aggettivo possessivo di 1ª persona singolare ridotto a sillaba enclitica, uso che troviamo anche presso antichi scrittori: “marite” – “marideme” (mio marito); “nepote” – “nepòdeme” (mio/a nipote); “frate” – “frademe” (mio fratello); “canate” – “canademe” (mio/a cognato/a).
L’aggettivo possessivo enclitico sonorizza (muta la t > d, la c > g) la sorda dell’ultima sillaba dei nomi di parentela: “patriche” e “patrigheme” (il patrigno mio); “srogheme” (la suocera mia); “sorme” (mia sorella); “cheggìneme” (mio/a cugino/a); “norme” (la nuora mia); “attamene” (il padre mio); (“sorme” e “norme”; sincopi di “soreme” e “noreme”).

Mamme” e “case”, sottintendono il possessivo: “vogghe a ccase” e “vogghe a mmamme” (vado a casa mia, a mamma mia), altrimenti dirà: “vogghe a mmammete o a ccaste” (a mamma tua o a casa tua); “Mamamme” (mia mamma); esiste soltanto nel linguaggio infantile.

I nomi al plurale escludono ogni forma enclitica (richiedono la forma staccata) e prendono le forme accentate dell’aggettivo possessivo che segue: “le frate mì” (i miei fratelli); “le sore mè” (le mie sorelle); “le canate so” (le sue cognate); eccezione: “nepùdeme” (i miei nipoti).
Esempi di nomi singolari con forme enclitiche di 2ª persona singolare: “maritte” –  anche “maritete” – (tuo marito); “nepotte” (tuo nipote); “fratte” (tuo fratello); “canatte” (tuo cognato/a); “attanete” (tuo padre), ma anche “dattande” che vale ‘tuo padre tuo’, forma eccezionale ed unica in cui si ha, oltre all’aggettivo enclitico, anche, probabilmente, un aggettivo proclitico. Si badi bene a non confondere “dattande” con “d’attande”: “stà dattande?” (c’è tuo padre? – sincope di “attànete”: la ‘t’ diventa ‘d’ preceduta da ‘n’ –).
Da sottolineare che anticamente si diceva “attanda tù”, “canatta tù” (padre tuo / cognato tuo); oggi è rimasto solo “màmmeta tò”.

È frequente inoltre, l’uso della forma rafforzativa pleonastica in determinati stati d’animo di chi parla: “sorda tò” (tua sorella tua); “mameta tò” (tua madre tua); “attaneme mì” (mio padre mio).
Non si hanno forme incorporate, unite, bensì staccate: “la casa so” (casa tua). Così dicasi per il plurale, che esclude ogni forma enclitica. In tal caso richiede sempre l’articolo davanti al nome, che vuole, staccato dopo di sé, l’aggettivo possessivo: “le casre mè” (le mie case); “le frate tù” (i tuoi fratelli); “le frate nèste” / “uèste” (i fratelli nostri /vostri).
Eccezione, come già detto: “nepùdeme” (i miei / le mie nipoti) e “neputte” (i tuoi / le tue nipoti).
Da notare: “cusse iè iòre mì” e “cuss’ore iè (u) mì” (questo è oro mio / questo oro è (il) mio); quando “” ha funzione di aggettivo, in questa particolare costruzione, specie dopo il verbo, prende l’articolo corrispondente.

L’italiano ‘proprio’ ha il suo corrispondente in “probie” e “probbie” che è poco frequente; più usato è “” (suo); “so” (sua/sue); “lore” (loro); “oggn’e iùne av’a sendì la vosce du core sù” (ognuno deve ascoltare la voce del proprio cuore); “probbie tu st’a pparle” (proprio tu stai parlando); “iìdde pènze a le file sù” (egli pensa ai propri figli).

Altrui’ si traduce in “de l’alde”, “la recchèzze de l’alde” (la ricchezza degli altri – altrui –).