Saggio di vocaboli e locuzioni arcaici, recupero di termini antichi o poco usati di cui la maggior parte non vengono quasi più inseriti nel parlare quotidiano.
A ogni pagina verranno utilizzati lemmi con la giusta accentazione per una pronuncia perfetta in dialetto seguita dalla traduzione in lingua italiana e, dove sarà possibile, si ricorrerà anche all’etimologia della parola. È un altro modesto contributo che «Don Dialetto.it» dà alla lingua barese presentando un dizionarietto.
alàzze s.m. [dal lat. “halare”]. – Sbadiglio. “U u-alàzze” lo sbadiglio continuato, come dicono ancora gli anziani, deriva: “o fame,o sècche, o sènne” (o da fame, o da sete, oppure da sonno). Lo sbadiglio si caccia in modo definitivo fregando insieme nel cavo della bocca aperta, il pollice e l’indice della mano destra. Rimedio facile e di nessunissima spesa. Es. “Me sò scucciàte d’aspettà. Stogghe a ffà tand’alazze” (Mi sono scocciato di aspettare. Sto facendo molti sbadigli).
brellòcche/brellòque s.m. [dal fr. “breloque”]. – Pendaglio; pendente; ciondolo. “U brellocche” si portava al collo con una catenina. Esso aveva da una facciata la fotografia e dall’altra la ciocca di capelli dell’innamorato e il loro possesso significava aver stregato e legato a sé eternamente l’uomo con un rito ritenuto magico.
camarà v. intr. [dal lat. “cammarare”, con riferimento allo sp. familiare “jamar” mangiare, leggasi all’incirca “camar”]. – Mangiar di grasso. Es. “Pe ttutte la Quarèseme non ze pote camarà” (Per il periodo della Quaresima non è permesso mangiar di grasso).
diatèrze avv. [dal lat. “dies tertius”]. – Tre giorni addietro; giorno che precede l’altro ieri. Es. “Diatèrze acchiàbbe n-dèrr’a la lanze Mengùcce che la megghière” (Tre giorni fa incontrai in terra la lancia Domenico con la moglie).
ère s.f. [dal lat. “area”]. – Aia; aria libera sotto l’albero. Aria aperta. Es. “M-Mènz’a ll’ère de Carvenàre” (Nella gran piazza di Carbonara dove una volta era l’aia per trebbiare il grano). Il 3 giugno 1928 al centro della piazza intitolata al Re Umberto I, s’inaugurò il bel monumento ai Caduti della 1ª guerra mondiale.
fraffuègghie s.m. [dallo sp. “farfulla”]. – Intrico; imbroglio; guazzabuglio; pasticcio; ginepraio. Es. “Fraffuègghie de zite” (Imbroglio tra sposi o famiglie degli sposi).
Es. “M’agghie acchiàte m-mènz’a nnu fraffuègghie ca non zacce come me ne ià-assì” (È come trovarsi coinvolto, impigliato, trascinato quasi sempre contro la propria volontà in situazioni pericolose ed intricate e complesse dalle quali non s’intravede una via d’uscita).
giàrre s.f. [dall’ar. “garra”]. – Brocca. Vaso di terracotta o di vetro per acqua. È indicato anche per grosso bicchiere di vetro pesante usato verso gli anni Venti del secolo scorso dai gelatai per contenere la “lemenàte” (granita di limone).
iàdeca iàdeche locuz. – Metà cotta metà cruda. Es. “La fecazze iè iàdeca iàdeche” (La focaccia è metà cotta, metà cruda); “la carne l’ha sì ffatte iàdeca iàdeche” (la carne l’hai cucinata metà cotta, metà cruda).
lepòmene s.m. [dal lat. “lupus hominorium”]. – Lupo mannaro; licantropo; uomo lupo.Individuo afflitto da affezione assai rara di natura isterica. Nelle notti di plenilunio era assalito da un’aggressione incontenibile e usciva dalla sua abitazione avviandosi per le strade e i vicoli oscuri emettendo urla rauche e prolungate. Da notizie tramandateci oralmente dai nostri anziani, diventava “lepòmene” chi nasceva nella notte tra il 24 e il 25 dicembre. Il lupo mannaro ha sempre colpito la fantasia popolare spaventando bambini e ragazzi e intimorendo adulti. Un buon pretesto delle mamme per far stare buoni i loro figliuoli irrequieti. Es. “Statte chiète o se no chiàmeche u lepòmene” (Stai buono altrimenti chiamo l’uomo lupo). “Fusce, fusce, vìin’a la mamme, u lepòmene vène, ce te vète te mange” (Corri, corri, vieni dalla mamma tua, il lupo mannaro sta venendo, se ti vede ti mangia).
mussce¹ agg. [dal fr. “moche”]. – Orripilante; butterato, detto di viso con segni del vaiolo. “La mossce” luogo nelle vicinanze del viale della Fiera, famoso per la presenza di una attività gestita da una donna che aveva contratto il vaiolo.
mussce² agg. [dal lat. “mustius”]. – Moscio, posapiano; lento nell’agire, nei movimenti. Es. “Uaggliò ce sì mussce a cammenà” (Ragazzo come sei lento a camminare).
mussce³ s.m. (scient.: “navicula noae”). – Arca di Noè. Mollusco molto saporito; crudi, i baresi ne sono ghiottissimi; cotti, prevalentemente con gli spaghetti. Il pescatore, nella vendita, per celebrarne le qualità, è solito gridare: “BBèlle iè u mussce! U-addòre du mare iè u mussce” (Saporito è il ‘muscio’! L’odore del mare è il ‘muscio’).
nache s.f. [dal gr. “nake” ]. – Culla. Anticamente era riferito al vello della pecora o di capra. Es. “U pecenìnne stà ddorme iìnd’a la nache” (Il bambino sta dormendo nella culla). In origine i bambini furono posti a dormire in amache di pelle di pecora o di capra, sostenute al soffitto con funicelle che facilitavano il dondolio anche automatico. In seguito fu adottata una culla a carena, come il fondo di una barca, altri la realizzarono anche in ferro, poggiante su due estremi a semicerchio, sulle cui convessità si otteneva, con dolci stimoli a mano o con un piede, il necessario dondolio.
omnebbùsse s.m. [dal fr. “omnibus”] – Diligenza, vettura per tutti. Termine coniato nella primavera del 1828 da Omnès, fondatore della prima compagnia degli omnibus di Parigi. A Bari il servizio pubblico con “omnebbùsse” fu istituito dopo il 1881 e prima del1900.
pemìidde¹ s.m. – Pugno di cenere raccolto in un fazzoletto o pezzo di stoffa, utilizzato dai nostri nonni per ottenere l’intenerimento dei legumi; questi, quando si cucinava a legna e, prima dell’avvento della bombola a gas, si ponevano a mollo la sera prima. Il mattino seguente, tolto il fazzoletto e cambita l’acqua si mettevano a cuocere. Oggi si cambia l’acqua e si aggiunge un pizzico di bicarbonato.
pemìidde² s.m. – Pomello del viso, zigomi. L’arrossamento degli zigomi, è indice di febbre.
pemìidde³ s.m. – Pomello inzuccherato che si dava ai neonati, da questo derivò il ‘gigetto’: ciuccetto.
quarte¹ agg./s.m. [dallo sp. “quarto”]. – Appartamento; (si pronuncia anche con la (c) gutturale: “cuàrte”). Es. “Vastiàne s’av’accattàte u quarte a Via Manzone” (Sebastiano si è comprato l’appartamento in Via Manzoni). Nel linguaggio figurato ha significato di persona che è facile a irritarsi. Es. “Stamatìne a Ceccìille nonn-u puète a tecuà, s’av’alzàte cu quarte a l’ammèrse” (Stamattina a Francesco non gli puoi dire niente, si è svegliato molto nervoso).
quarte² (la) locuz. [dallo sp. el quarto”]. – Denaro. Es. “Va fatiche p’abbescecuàrse la quarte du ppane” (Va a lavorare per guadagnarsi il denaro occorrente per il pane quotidiano).
rizze s.m. «scientificamente classificato “parancentrotus lividus”, aculei lividi avvicinati». – Riccio di mare che vive in posti algosi di cui i baresi sono gelosi e…golosi. Famoso il detto che anche un divertente scioglilingua: “U Sinneche de Terlìzze / Mann’a BBare a pegghià le rizze. / Disce u Sinneche de BBare: / No nge stonne rizze a Terlizze, / Ca vìin’a BBare a pegghià le rizze?” (Il Sindaco di Terlizzi / Manda a Bari a prenderea prendere i ricc di marei. /Dice il Sindaco di Bari: / Non ci sono ricci a Terlizzi, che mandi a Bari a prendere i ricci?). La frase: “Iè vacande u rizze” (È vuoto il riccio), assume significato di affare andato a vuoto, senza guadagno, senza alcun ricavato o con riferimento a uomo inconcludente. I migliori ricci baresi sono quelli cosiddetti “du pennìte”: luogo particolare del litorale barese, ricco di alghe prelibate.
salìpce o salìpece s.m. [termine scientifico “palaemon serratus”, dio dentato dei porti]. – Gamberetto. “Salìpce” è termine onomatopeico che il pescatore gli ha attribuito per i suoi guizzi fulminei a zig zag irregolari. Dice un sonetto: “Com’o fulmene u salìpce / Mò se stute e mmò s’appicce / ZZombe com’a na saiètte / Quann’u volene auuandà” (Come un fulmine il gamberetto / Adesso si spegne e adesso s’accende / Salta come una saetta / Quando lo vogliono catturare).
trembà v. [popolare]. – Trombare, impastare la massa, meglio l’atto di premere alternativamente con i pugni il composto di farina, acqua e lievito. È come se due stantuffi affondassero nella soffice pasta per renderla omogenea. Il movimento di penetrazione a pugni chiusi nella massa della pasta stesa sul tavoliere, con maliziosa allusione al francese «trembleur», ha fatto nascere il “trembà” barese (con analogo significato di “pombà”: pompare) con il significato di – fornicare -. Però, l’uso frequente di “trembà” attinente alla confezione del pane e della pasta ha svuotato il termine d’ogni contenuto erotico.
uascèzze s.f. [dal lat. “gaudium” ]. – Gaiezza, allegria, gran festa, pranzo festoso, banchetto, scampagnata in famiglia. Allegria chiassosa a un banchetto.
vetrane s.f. [lat. volg. “veterana, vetraggine”, lat. “vitrum”] (termine di medicina popolare). – Morbillo. Malattia infettiva contagiosa, epidermica che colpisce i bambini di tenera età e fanciulli. Ha massima frequenza in primavera e in autunno. Dura in media sei ed è legata alla comparsa di un esantema maculo-papulare a diffusione cranio caudale, confluente. L’esantema scompare prima dalle aree ove più precoce è stata la sua comparsa, talora con desquamazine furfuracea o residuando una lieve colorazione brunastra. La si nota soprattutto sul ventre e sul viso. Può portare febbre anche alta. Le anziane la curavano dando a bere acqua e vino e tenendo il bambino bene al caldo, cautelato in camera chiusa senza correnti d’aria, sotto una coperta imbottita, con copertura di raso rosso o granato, colore che, dicevano, agevolavano l’uscita di tutto il malessere ed evitavano l’insorgere del catarro delle prime vie respiratorie. Quindi, si richiedeva molto calore per un periodo d’incubazione della durata di tre giorni perché, dove il morbillo non usciva fuori totalmente, difficilmente l’infermo si salvava. Se era ben curata, il bambino sembrava più alto tanto da convincere che la febbre lo aveva fatto allungare.
zagarèdde s.f. [dall’ar. “zahr(a)”]. – Nastri, fettucce di seta usati nell’ornamento della capigliatura femminile. Una volta “le zagarèdde” adornavano mazzi di fiori d’arancio, foglie d’ulivo o d’altre piante, per ingentilire il capo femminile.
La ricerca dei lemmi è stata facilitata dai libri della «Biblioteca dell’Archivio delle Tradizioni Popolari Baresi» di Alfredo e Felice Giovine(fondata nel 1960), da “Voci, locuzioni, espressioni nell’uso popolare antico e moderno della lingua barese” del «Centro Studi “Don Dialetto» diGigi De Santis (1976-2010), consultazioni di glossari baresi e di alcuni vocabolari e glossari di paesi e città della provincia della Puglia.